XXVI DOMENICA DEL T.O.
anno C (2022)
Am 6,1.4-7; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
Disse Gesù ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
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Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto (Lc 16,22). Questo versetto mi ha evocato la potente ironia di Totò nella sua celebre “A’ livella”. In questa poesia il grande comico napoletano, in modo diverso da quanto ci vuole rivelare la parabola del vangelo, immagina di assistere a un surreale dialogo tra due uomini post-mortem in un cimitero: un marchese e un netturbino sepolti uno vicino all’altro. All’inveire dell’uomo di nobili origini per essersi ritrovato ubicato presso l’umile vicino, il netturbino replica cercando di placare il nobile, invitandolo sostanzialmente a essere ragionevole. Non riuscendo nel suo intento, ricorre a parole che suonano come un ultimo, forte appello. (Traduco dal dialetto): “ma chi ti credi di essere? Un dio? Non hai ancora capito che qui dentro siamo uguali? Morto sei tu e morto sono anche io. Qui ognuno è tale e quale a come è nato…Ti vuoi mettere in testa che sei solo malato di fantasia? Sai cos’è la morte? È una livella: un re, un magistrato, un grande uomo, varcando questo cancello si sono resi conto che hanno perso tutto, la loro vita e la loro reputazione. Come mai tu non te ne sei ancora reso conto? Perciò dammi retta, non essere restio, lascia che ti resti vicino, che t’importa? Certe pagliacciate le fanno solo i vivi, noi invece siamo seri, apparteniamo alla morte!”
Il vangelo però, a differenza di Totò, si spinge oltre. Gesù ci rivela che la morte non è semplicemente una livella. La sua serietà sta nel fatto che in essa è nascosta una giustizia. E se anche nella parabola si evidenzia in qualche modo una sorta di dialogo post-mortem, non è certo per rimarcare solo una comune condizione mortale che cancella la grande differenza che c’era in vita. Infatti, il ricco stando negli inferi tra i tormenti (Lc 16,23) vede il povero Lazzaro insieme ad Abramo, l’amico di Dio per eccellenza. Dunque dovrebbe aver capito, ma solo dopo la morte, che il povero che gli stava alla porta era un amico di Dio. Ma riconoscerlo ora non gli serve a niente: figlio, ricordati che nella vita tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali – gli dice Abramo esortato da quell’uomo – ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti (Lc 16,25). Inoltre, la richiesta del ricco è comunque quella di farsi servire da Lazzaro (Lc16,24). Ironia ancora più potente del vangelo: quell’uomo non riesce a smettere di pensare solo a sé stesso. E qui c’è tutto il salutare ammonimento. Per la Bibbia una persona fallita è una persona che non ha imparato ad amare. Una vita fallita è una vita rinchiusa nel proprio egoismo che non ha avuto compassione delle sofferenze degli altri e non si è curato dei poveri.
Il ricco della parabola non rimane fuori dal paradiso perché fosse un dissoluto, uno speculatore o un beone. Certamente la vita agiata che condusse contribuì a fargli perdere la sensibilità, ma dalle parole di Abramo non sembra siano stati i fattori principali. I tormenti in cui costui si ritrova sono precisamente il prodotto del suo vivere attento solo a sé, cioè preoccupato solo di star bene, fino a nemmeno percepire la presenza di Lazzaro affamato e coperto di piaghe alla sua porta (Lc 16,20). Il benessere, la ricchezza, non è condannata per sé stessa dal vangelo. È il non averla usata per soccorrere le sofferenze di Lazzaro, è la mancata condivisione di essa che viene giudicata dal vangelo. Il ricco si sarebbe potuto fare amico il povero Lazzaro, ma non l’ha fatto. È questo che lo porta negli inferi, infelice e fuori dal Paradiso: non è punizione divina, è conseguenza insita nella sua inazione egoistica. Notate come Abramo si rivolge a lui nell’oltretomba: lo chiama “figlio”. Dio e i suoi amici conoscono e vivono solo una realtà: amare. Non sanno fare altro.
L’ammonimento è salutare perché Abramo precisa che tra noi e voi è stato fissato un grande abisso (Lc 16,26a). C’è un abisso che dopo questa vita fa collocare ciascuno in eterno laddove ha abitato con il suo cuore. Se uno ha abitato volutamente nell’egoismo, principio di morte, si troverà infelice tra i tormenti che da sé stesso si è procurato. E il tormento è esattamente questo: vedere di essersi fatto scappare le innumerevoli occasioni per amare, l’unica realtà che può rendere felice l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Dall’altra parte, chi avrà cercato di percorrere la via dell’amore giungerà in qualche modo nel regno dell’amore, dove abita Dio. Il problema che Gesù suscita con la parabola, potrebbe riassumersi così: qual è la questione veramente seria per l’uomo, per non ritrovarsi alla fine della vita terrena indifferente alle sofferenze dei poveri? La seconda parte della parabola indica la risposta. Dagli inferi il ricco supplica Abramo di mandare Lazzaro ad avvertire i suoi familiari, come se ancora non avesse accettato che il grande abisso non permette tale movimento (Lc 16,26b). E Abramo ricorda al ricco (e a noi) che abbiamo le Scritture e la testimonianza di uno che è risorto dai morti per aver battuto la via dell’amore. L’ascolto e la meditazione delle Scritture sono più che sufficienti per non rimanere insensibili ai milioni di Lazzaro che ci sono nel mondo e che hanno il potere di aprirci le porte del Paradiso (Lc 16,29-31).
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LEJANO O CERCA DE ABRAHAM
Sucedió que murió el mendigo, y fue llevado por los ángeles al seno de Abrahán. Murió también el rico y fue enterrado. (Lc 16,22). Este versículo me ha evocado toda la potente ironía de Totó en su célebre “A’ livella”. En esta poesía el gran cómico napolitano, de manera diferente de lo que nos quiere revelar la parábola del evangelio, imagina asistir a un surrealista diálogo entre dos hombres post-mortem en un cementerio: un marqués y un basurero enterrados uno cerca al otro. Al despotismo del hombre de origen noble por encontrarse ubicado cerca del vecino pobre, el basurero replica intentando placar al noble hombre, invitándolo sustancialmente a ser razonable. No logrando en su intento, recurre a palabras que suenan como un último, fuerte llamamiento. (Traduzco del dialecto): “¿Quién te crees que eres? ¿Un dios? ¿Todavía no te has dado cuenta de que aquí dentro somos iguales? Muerto eres tú y muerto soy yo también. Aquí todo el mundo es tal y cual en cómo nació… ¿Quieres meterte en la cabeza que solo estás enfermo de fantasía? ¿Sabes qué es la muerte? Es un nivel: un rey, un magistrado, un gran hombre, al cruzar esta puerta se dieron cuenta de que habían perdido todo, su vida y su reputación. ¿Cómo es que aún no te has dado cuenta? Así que hazme caso, no seas tímido, deja que me quede cerca, ¿qué te importa? Ciertas payasadas solo las hacen los vivos, nosotros en cambio somos serios, ¡pertenecemos a la muerte!”
Pero el evangelio, a diferencia de Totó, va más allá. Jesús nos revela que la muerte no es simplemente un nivel. Su sinceridad está en el hecho que en ella está escondida una justicia. Y aunque si en la parábola se evidencia de alguna manera una serie de diálogo post-mortem, no es cierto solo para señalar una común condición mortal que cancela la gran diferencia había en vida. De hecho, el rico estando en el infierno entre los tormentos (Lc 16,23) ve al pobre Lázaro junto a Abraham, el amigo de Dios por excelencia. Entonces debería haber entendido, pero solo después de la muerte, que el pobre que le estaba en la puerta era un amigo de Dios. Pero reconocerlo ahora no le sirve para nada: Hijo, recuerda que recibiste tus bienes en tu vida, y Lázaro, a su vez, males – le dijo Abraham exhortando a aquel hombre – por eso ahora él es aquí consolado, mientras que tú eres atormentado (Lc 16,25). Así mismo, el pedido del rico es así mismo, hacerse servir por Lázaro (Lc16,24). Ironía aún más potente del evangelio: ese hombre no termina de pensar solo en sí mismo. Y aquí está toda la advertencia saludable. Para la Biblia una persona fracasada es una persona que no ha aprendido a amar. Una vida fracasada es una vida encerrada en el propio egoísmo que no tuvo compasión de los sufrimientos de los demás y no se ha preocupado de los pobres.
El rico de la parábola no se queda fuera del paraíso porque fuera un libertino, un especulador o un ebrio. Ciertamente la vida agitada que lleva contribuyó a hacerle perder la sensibilidad, pero de las palabras de Abraham no parecen haber sido los principales factores. Los tormentos en el cual este se encuentra son precisamente el producto de su vivir atento solo a sí mismo, o sea, preocupado solo de estar bien, hasta no sentir la presencia de Lázaro hambriento y cubierto de llagas en su puerta (Lc 16,20). El bienestar, la riqueza, no está condenada por el evangelio. Es el no haberla usada para socorrer los sufrimientos de Lázaro, es la falta de compartir que el evangelio juzga. El rico podría haberse hecho amigo del pobre Lázaro, pero no lo hizo. Esto es lo que lo lleva al infierno, infeliz y fuera del Paraíso: no es castigo divino, es consecuencia inherente a su inacción egoísta. Noten como Abraham se dirige a él en el inframundo: lo llama “hijo”. Dios y sus amigos conocen y viven una sola realidad: amar. No saben hacer otra cosa.
La advertencia es saludable porque Abraham precisa que Y, además, entre nosotros y vosotros se abre un abismo inmenso (Lc 16, 26a). Hay un abismo que después de esta vida hace colocar a cada uno allí donde ha vivido con su corazón. Si uno ha vivido voluntariamente en el egoísmo, principio de muerte, se encontrará infeliz entre los tormentos que por sí mismo se ha procurado. Y el tormento es exactamente esto: ver que se ha dejado escapar las innumerables ocasiones para amar, la única realidad que puede hacer feliz al hombre hecho a imagen y semejanza de Dios. Por otra parte, quien haya tratado de recorrer el camino del amor llegará de alguna manera al reino del amor, donde habita Dios. El problema que Jesús suscita con la parábola podría resumirse así: ¿cuál es la cuestión verdaderamente seria para el hombre, para no encontrarse al final de la vida terrena indiferente a los sufrimientos de los pobres? La segunda parte de la parábola indica la respuesta. Desde los infiernos el rico suplica Abraham que envíe a Lázaro a advertir a sus familiares, como si todavía no hubiera aceptado que el gran abismo no permite tal movimiento (Lc 16,26b). Y Abraham recuerda al rico (y a nosotros) que tenemos las Escrituras y el testimonio de alguien que resucitó de entre los muertos por haber recorrido el camino del amor. La escucha y la meditación de las Escrituras son más que suficiente para no quedarnos insensibles a los millones de Lázaros que hay en el mundo y que tienen el poder de abrirnos las puertas del Paraíso (Lc 16,29-31).
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