DAVANTI ALL’IO O DAVANTI A DIO?

XXX DOMENICA DEL T.O.

Sir 35,15b-17.20-22a; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che confidavano in se stessi e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato»

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Domenica scorsa l’invito di Gesù a perseverare nella preghiera. La parabola infatti era sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1). Oggi Gesù invita a verificare l’anima della nostra preghiera e a interrogarsi sulla sua autenticità.

Due uomini salgono al Tempio per pregare. Colpisce subito che la preghiera del fariseo, credente-praticante tipo in Israele, cominci con un grazie a Dio cui segue un immediato inno al proprio io (Lc 18,11-12). E’ come uno che ad un banchetto richiama tutti a dire la preghiera prima di cominciare a mangiare; ringrazia Dio per quello che c’è sulla tavola da condividere insieme, ma poi a tutti si affretta a dire: “tutte queste pietanze le ho preparate io!”. Inoltre, ma guarda un po’, sono il digiuno e la decima di tutto, cioè offerte da fare a Dio, l’oggetto discriminante tra lui e gli uomini che lo circondano, tutti dei poco di buono, compreso quel disgraziato di pubblicano che gli sta alle spalle. In realtà quest’uomo non parla con Dio, perché davanti ha un altro dio come interlocutore: il proprio io. Il suo è un monologo, non un dialogo. Notate bene: stando in piedi. C’è una vita di fede che non sta in piedi, ma che si ostenta stare in piedi. Nel nome dell’osservanza della legge di Dio, ci si rende protagonisti del bene che si fa dimenticando ciò che fa lievitare le opere della autentica fede: nascondimento e umiltà.

Il fariseo al Tempio, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, ottobre 2016
Il fariseo al Tempio, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, ottobre 2016

Il pubblicano, figura di uomo notoriamente deprecato dall’autorità religiosa, non riesce nemmeno ad avvicinarsi e ad alzare gli occhi al cielo, ma si riconosce semplicemente e sinceramente peccatore (Lc 18,13). Gesù dice che costui torna a casa giustificato da Dio mentre l’altro no: per Dio quel giusto non è affatto giusto! Il che vuol dire che il pubblicano invece aveva davanti a sé il Dio vivo e vero, Colui che giustifica l’uomo che riconosce la propria verità. Perché la verità è principio di umiltà, e né l’una né l’altra sono nella natura umana. Perciò il Signore aggiunge alla fine che è necessaria all’uomo l’umiliazione (Lc 18,14).

Il pubblicano al Tempio, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, ottobre 2016
Il pubblicano al Tempio, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, ottobre 2016

Dalla parabola, quale insegnamento per il nostro cammino nella preghiera? Sembra che il vero peccato per Dio sia quello del fariseo, ovvero quello che ci si nasconde accuratamente dietro una falsa immagine di bontà. La vera preghiera, in quanto incontro con il vero Dio, ha questo passaggio necessario: fa uscir fuori la verità del mio cuore. Mi fa vedere il mio peccato e mi unisce a tutti gli uomini facendomeli vedere per quello che sono: sono peccatori, ma sono miei fratelli! Diversamente, mi porta a guardarmi e a cercare me stesso nelle opere di bene fatte magari con tanto sacrificio, ma contrapponendomi e distinguendomi dagli altri uomini. Quest’ultima preghiera (se si può chiamare tale) non spicca nemmeno il volo, rimane nell’illusione di chi parla così tra sé (Lc 18,11). La grazia allora da chiedere davanti a questo vangelo è di riconoscere il fariseo che è in me! Perché se il pericolo di costui era dire al Signore ti ringrazio che non sono come quei peccatori, per noi cristiani invece il pericolo è dirgli ti ringrazio perché non sono come quel fariseo.

Fu chiesto da un giovane a un monaco padre del deserto: cos’è l’umiltà? Quegli rispose: L’umiltà è un opera grande, anzi, è un opera divina. La strada che conduce all’umiltà è la seguente: bisogna pregare, bisogna compiere lavori corporali, bisogna considerarsi uomini peccatori, bisogna sottomettersi a tutti. Allora quel giovane aggiunse: e che cosa vuol dire essere sottomesso a tutti? Il vecchio replicò: uno è sottomesso a tutti quando non bada ai peccati degli altri, ma piuttosto osserva i suoi supplicando ininterrottamente Dio (A.Grün, Il cielo comincia in te, Queriniana, p.29).

Un giorno il Signore Gesù disse a S.Maria Faustina Kowalska: ci sono anime per le quali non posso fare nulla. Sono le anime che spiano continuamente quello che fanno le altre e non sanno quello che avviene nell’intimo del proprio cuore…Povere anime che non ascoltano le mie parole! Restano vuote nel loro intimo perché non mi cercano all’interno del proprio cuore, ma nei pettegolezzi e nei giudizi degli altri, dove io non ci sono mai. Sentono il loro vuoto, ma non riconoscono la loro colpa; e così le anime dove io regno costituiscono per loro un rimorso insopportabile di coscienza (Sr.Maria Faustina Kowalska, Diario, VI quaderno parte 2, LEV).

Il cammino della preghiera è il cammino dell’umiltà di chi si sta conoscendo mentre sta conoscendo Colui che gli dona di conoscersi.

BUONA DOMENICA!

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El domingo pasado la invitación de Jesús a perseverar en la oración. La parábola de hecho era sobre la necesidad de orar siempre, sin cansarnos (Lc 18,1). Hoy Jesús invita a verificar el alma de nuestra oración y a preguntarnos sobre su autenticidad.

Dos hombres suben al Templo para rezar. Impacta inmediatamente que la oración del fariseo, creyente-practicante tipo en Israel, comience con un gracias a Dios en el cual sigue un inmediato himno al propio yo (Lc 18,11-12). Es como uno que en un banquete llama a todos a decir la oración antes de comenzar a comer; agradece a Dios por lo que hay en la mesa para compartir juntos, pero después se apura a decir a todos: “¡todos estos alimentos los he preparado yo!”. Además, pero mira un poco, son el ayuno y el diezmo de todo, o sea prescripciones religiosas, el objeto discriminador entre él y los hombres que lo circundan, todos con poco de bueno, incluido aquél desgraciado del publicano que está a sus espaldas. En realidad este hombre no habla con Dios, porque delante tiene a otro dios como interlocutor: el propio yo. Lo suyo es un monólogo, no un diálogo. Miren bien: de pie. Hay una vida de fe que no está de pie, pero que se ostenta estar de pie. En el nombre del cumplimiento de la ley de Dios, se hacen protagonistas del bien que se hace olvidando lo que hace levitar las obras de la auténtica fe: escondimiento y humildad.

El publicano, figura de hombre notoriamente desaconsejado por la autoridad religiosa, no logra ni siquiera a acercarse y a levantar los ojos al cielo, pero se reconoce simplemente y sinceramente pecador (Lc 18,13). Jesús dice que este regresa a casa justificado por Dios mientras que el otro no: ¡para Dios aquel justo no es de hecho justo! Lo que quiere decir que el publicano tenía delante de sí al Dios vivo y verdadero, Aquél que justifica al hombre que reconoce la propia verdad. Porque la verdad es principio de humildad, y ni una ni la otra están en la naturaleza humana. Por esto el Señor agrega al final que es necesario al hombre la humillación (Lc 18,14).

De la parábola, ¿qué enseñanza para nuestro camino en la oración? Parece que el verdadero pecado para Dios sea lo del fariseo, es decir aquello que se esconde cuidadosamente detrás de una falsa imagen de bondad. La verdadera oración, en cuanto encuentro con el verdadero Dios, tiene este necesario pasaje: saca afuera la verdad de mi corazón. Me hace ver mi pecado y me une a todos los hombres haciéndomelos ver por aquello que son: ¡son mis hermanos! Diversamente, me lleva a mirarme y a buscar a mí mismo en las obras de bien hechas quizás también con tanto sacrificio, pero contraponiéndome y distinguiéndome de los demás. Esta última oración (si se puede llamar tal) no sobresale ni siquiera el vuelo, se queda en la ilusión de quien habla así entre sí (Lc 18,11)

La gracia para pedir entonces delante a este evangelio es de reconocer al fariseo que está en mí! Porque si el peligro de este era decir al Señor te doy gracias porque no soy como los demás hombres, que son ladrones, injustos y adúlteros, para nosotros cristianos en cambio el peligro es decirLe te agradezco porque no soy como aquel fariseo.

Fue preguntado por un joven a un mónaco padre del desierto: ¿Qué es la humildad? Este respondió: La humildad es una obra grande, más bien, es una obra divina. El camino que conduce a la humildad es la siguiente: es necesario rezar, se necesita hacer trabajos corporales, es necesario considerarse hombres pecadores, es neceario someterse a todos. Entonces aquél joven agregó: ¿Qué quiere decir estar sometido a todos? El viejo replicó: uno está sometido a todos cuando no hace caso de los pecados de los demás, sino más bien observa los suyos suplicando inenterrumpidamente a Dios (A.Grün, El cielo comienza en ti, Queriniana, p.29).

Un día el Señor Jesús dijo a S. María Faustina Kowalska: hay almas por las cuales no puedo hacer nada. Son las almas que espian continuamente lo que hacen las otras y no saben lo que sucede en lo íntimo  del propio corazón… ¡Pobres almas que no escuchan mis palabras! Se quedan vacías en su interior porque no me buscan en lo íntimo del propio corazón, sino en las chismoserías y en el juzgar de los demás, donde yo nunca estoy. Sienten su vacío pero no renocen su culpa, y así las almas donde yo reino constituyen para ellos un remordimiento insoportable de consciencia (Sr. Maria Faustina Kowalska, Diario, VI cuaderno parte 2, LEV).

El camino de la oración es el camino de la humildad de quien se está conociendo mientras está conociendo a Aquél que le dona conocerse.

6 Comments

  1. Leggendo il vangelo di oggi e il tuo commento sempre molto efficace, sono andata a rileggere la collocazione dei superbi nella Divina Commedia dantesca. Li ho ritrovati curvi, sotto pesanti macigni, quasi come le cariatidi dei capitelli, che giravano recitando il Padre Nostro nel primo cerchio del Purgatorio.
    E in effetti, l’ immagine è suggestiva perché rappresenta l’esatto contrario di come si atteggia colui (e potremmo essere anche noi) che “si basta a se stesso “, che disprezza gli altri ma che soprattutto disconosce il fatto di avere bisogno dell’ amore di Dio, quindi si riconosce perfetto e infallibile, cioè non permette di farsi amare da Dio perché ritiene di non avere “peccati”. E come icona di umiltà, Dante mette Maria mentre dice all’Angelo il suo “Sì ” incondizionato al Signore….io sono la Serva del Signore. Ma riportando tutto alla realtà attuale, si potrebbe obiettare che l’umile oggi non ha un posto nella società, è un perdente in partenza in quanto rischia di essere “fagocitato” dai moti contrari, cioè dalla sete di potere, di possesso……….quindi si insegna ai figli a primeggiare assolutamente in tutto, a “sgomitare”, ad ingannare gli altri per raggiungere il proprio scopo che deve essere la “scalata sociale” costi quel che costi. In questa scalata che apparentemente è verso l’ alto, ma realmente è verso il basso, non c’è posto per Dio, è triste ma è così. E allora ritorna la “punizione” esemplare di Dante: il superbo deve imparare a guardare per terra, cioè riconoscere i propri limiti. E la recita del Padre Nostro è il riconoscimento che tutto viene da Dio, che noi senza di Lui non saremmo nulla e che a Lui andremo

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    1. Grazie Chiara del tuo fedele apporto di riflessione…è proprio vero che chi vuole scalare verso l’alto viene ributtato in basso e chi invece cammina verso il basso viene catapultato in alto…ma è quello che dice Gesù alla fine del vangelo (v.14) Chiediamo insieme a Lui di donarci quella giusta e non sconveniente valutazione di sé stessi di cui ci parla S.Paolo in una delle sue lettere.

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  2. In questo perodo ho sperimentato che cosa sia l’essenziale, diamo per scontato ciò che abbiamo anche se sappiamo non è così. Solo cadere da un giorno all’altro dalla “sicurezza” alla totale incertezza ci fa capire che tutto ci viene dall’alto, anche la propria fede. Tante volte ci sentiamo migliori e più “puliti” degli altri, per poi scprire che non siamo niente e non abbiamo niente, tutto è vano, da soli non ci bastiamo. Cadiamo nella presunzione di “fare da soli” poi Lui ci fa tremare la terra sotto i piedi e ci riporta all’umiltá….

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  3. Se vuoi essere umile impara a non
    fare troppe domande a Dio… impara
    che prima di parlare c’è l’ascolto,
    che prima di progettare c’è da fare;
    impara che prima di amare devi
    farti amare perché Dio
    sia, non la tua obbligazione ma la tua
    realizzazione, non la tua rinuncia
    ma la tua ricompensa …che Dio
    sia il tutto di te……

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