XXVIII DOMENICA DEL T.O.
anno C (2019)
2Re 5,14-17; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
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Peccato che la liturgia della parola non riporti l’intero racconto della guarigione di Naaman il Siro (1a lettura). Un capolavoro anche letterario che sostiene efficacemente il senso del vangelo di oggi. Il Signore Gesù all’ingresso di un villaggio si vede venire incontro dieci lebbrosi. Pur mantenendo una debita distanza (Lc 17,12), la dolorosissima condizione che sale dal loro grido tocca subito il suo cuore: Dio ha sempre compassione. Ma questa volta Gesù non impone le mani come operava in tante guarigioni. Si limita a ordinare loro quanto già il libro del Levitico ordinava ai lebbrosi, cioè di presentarsi ai sacerdoti per una verifica del loro status di salute (Lv 14,2ss.). Quei lebbrosi obbediscono e guariscono ancor prima di incontrarli. Principio di guarigione è dunque l’ascolto e l’obbedienza alla parola di Dio.
Quei dieci infatti, all’invito di Gesù, avrebbero potuto replicare: “ma come? Non sei tu il taumaturgo di cui abbiamo sentito parlare? Non hai guarito in Galilea toccando uno come noi? (Mc 1,40-45) Perché non ci hai imposto le tue mani? Come mai ci mandi dai sacerdoti prima ancora di essere guariti? In altre parole, avrebbero potuto fare molte obiezioni, proprio come Naaman prima della sua guarigione. Se infatti andate a leggervi il racconto, troverete che il generale lebbroso del re di Aram accetta il suggerimento di una giovinetta ebrea messa al servizio di sua moglie: per trattare la sua malattia, lo invita a recarsi dal profeta Eliseo. Naaman accetta con la mediazione del re di Aram che intercede presso il re di Israele. Quest’ultimo sta per mandare tutto all’aria, quando Eliseo viene a saperlo e interviene invitando il re a mandargli senza indugio il generale pagano. Soltanto che, mentre questi si dirige verso di lui, Eliseo gli manda incontro un messaggero con la ricetta medica già pronta: bagnarsi per 7 volte nel fiume Giordano. Però Naaman si indigna e dice: ecco, io pensavo che certo verrà fuori, si fermerà, invocherà il nome del Signore suo Dio toccando con la mano la parte malata e sparirà la lebbra. Forse che l’Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque di Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per essere guarito? E se ne va senza incontrare Eliseo, ancora più adirato (2Re 5,11-12).
Per sua fortuna, aveva tra i suoi servi qualcuno che lo fece ragionare, adducendo la semplicità della richiesta di Eliseo. Allora il generale torna sui suoi passi, s’immerge 7 volte nel Giordano e guarisce. Forse molte volte, di fronte a problemi e malattie, siamo come Naaman. Cerchiamo interventi divini in segnali particolari, ci aspettiamo che il tal santo, prete o profeta dai carismi speciali a cui ricorriamo, proferisca il suo oracolo, compia o ci faccia compiere un gesto clamoroso. E fatichiamo a fidarci della parola di Dio quando essa invece ci chiede cose troppo “elementari”. In realtà ci comportiamo da perfetti increduli, perché pensiamo che l’azione divina debba essere sempre intercettata dalla nostra intelligenza o debba sempre rispettare un certo “cliché” religioso. Ma la lezione del vangelo non si ferma qui. Bisogna chiedersi come mai il Signore rimane così stupito (forse non senza una punta di amarezza) vedendo che solo uno dei dieci ritorna da Lui per ringraziare e dar gloria a Dio (Lc 17,17-18).
Costui era un samaritano, uno straniero, cioè un estraneo all’ortodossia religiosa di Israele. Lo stupore di Gesù non può certo rientrare nell’animo di chi non si vede riconosciuto nei suoi meriti, oppure di chi si sofferma ad osservare pessimisticamente che non c’è più gratitudine in questo mondo. C’è ben di più sotto. Quel samaritano (un eretico!) è l’unico entrato nel senso più profondo di quanto ha ricevuto. La guarigione dalla lebbra è stata un dono. Ma ricevere un dono senza riconoscere il donatore, cioè senza stabilire con lui una relazione, è come un bambino che riceve sempre tutto dai genitori, senza imparare a riconoscere da dove e attraverso chi proviene tutto. Alla lunga, chi vive così finirà per accampare sempre diritti verso gli altri, ma non vivrà in pace e non lascerà in pace nessuno. Perciò Gesù dice solo a quel samaritano che la salvezza lo ha raggiunto (Lc 17,19). Ci salva una relazione personale e grata con Gesù, non una salute ristabilita e l’offerta che ricambio per questa!
Probabilmente gli altri nove erano tra coloro che se la cavavano in questo modo. Dio ci ha fatto questa cosa? Bene, la legge prescrive che dobbiamo offrire qualcosa in cambio al sacerdote, siamo a posto così. Di chi vive con questa pseudo-fede, dove tutto è dovuto e si può scambiare, ne abbiamo piene le chiese. Ma invece di generare a un rapporto personale di fiducia, mantiene in piedi un mercato! C’è una lebbra molto più difficile da cui guarire: la religione d’interesse che chiede e rilascia favori. Chi si insabbia in questa “religione”, non conosce Dio, tuttalpiù cerca di usarlo. Ha dimenticato o non sa chi è Colui che domenica scorsa ha esortato ad essere “servi inutili”, cioè gente che ha imparato da Dio a vivere grati e a non cercare vantaggi dalla propria fede. Se vi pare, e se pensate che queste mie parole non siano solo farina del mio sacco, andate a leggervi il finale del racconto di Naaman guarito (2Re 5,20-27). È la triste vicenda di Ghecazi, uomo “credente” al servizio di Eliseo, che voleva approfittarsene di ciò che il profeta aveva invece rifiutato. Quella è la vera e più pericolosa lebbra da cui guarire, con la grazia di Dio.
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LA LEPRA QUE SE ENSCONDE EN LA INGRATITUD
Una pena que la liturgia de la palabra no contenga el relato completo de la sanación de Naamán el sirio (1era lectura). Una obra maestra también literario que sostiene eficazmente el sentido del evangelio de hoy. El Señor Jesús al ingreso de un pueblo ve que vienen a su encuentro diez leprosos. Aun manteniendo una debida distancia (Lc 17,12), la dolorosa condición que sale de sus gritos toca inmediatamente su corazón: Dios siempre tiene compasión. Pero esta vez Jesús no impone las manos como lo hacía en tantas sanaciones. Se limita a ordenar a ellos lo que el libro del Levítico ya ordenaba a los leprosos para su purificación, o sea presentarse a los sacerdotes para verificar su estado de salud (Lv 14,2ss.). Aquellos leprosos obedecen y se sanan todavía antes de encontrarlos. El principio de sanación es entonces la escucha y la obediencia a la Palabra de Dios.
Aquellos diez de hecho, a la invitación de Jesús, hubieran podido replicar: “¿pero cómo? ¿No eres tú el taumaturgo del cual hemos escuchado hablar? ¿No has sanado en Galilea tocando a uno como nosotros? (Mc 1,40-45) ¿Por qué no nos has impuesto tus manos? ¿Cómo así nos mandas a los sacerdotes todavía antes de ser sanados? En otras palabras, hubieran podido hacer muchas objeciones, justamente como Naamán antes de su sanación. Si de hecho van a leer el relato, encontrarán que el general del rey de Aram acepta la sugerencia de una joven hebrea puesta al servicio de su esposa: para tratar su enfermedad, lo invita a visitar al profeta Eliseo. Naamán acepta con la mediación del rey Aram que intercede ante el rey de Israel. Este último está por mandarlo todo al diablo, cuando Eliseo viene a saberlo e interviene invitando al rey a mandarle al general pagano sin preámbulos. Solo que, mientras que este se dirige hacia él, Eliseo le manda a su encuentro a un mensajero con la receta médica lista: bañarse por 7 veces en el río Jordán. Pero Naamán se indigna y dice: Había pensado: A mi llegada saldrá personalmente a encontrarme, se detendrá y rogará a Yavé. Con su mano tocará la parte enferma y quedaré sano. ¿Acaso no son mejores el Abana y el Farfar, ríos de Damasco, que todos los ríos del país de Israel? ¿No podría bañarme en los ríos de Damasco para mejorarme de la lepra? Y se va sin encontrar a Eliseo, todavía más enfadado (2Re 5,11-12).
Para su suerte, tenía entre sus siervos gente que lo hizo razonar aduciendo la sencillez del pedido de Eliseo. Entonces el general regresa sobre sus pasos, se sumerge 7 veces en el Jordán y sana. Quizás muchas veces, delante de problemas y enfermedades, somos como Naamán. Buscamos intervenciones en señales particulares, nos esperamos que el tal santo, sacerdote o profeta de carismas especiales al cual recurrimos, diga su oráculo, cumpla o nos haga cumplir un gesto clamoroso. Y fatigamos en confiar de la Palabra de Dios cuando ella en cambio nos pide cosas demasiado “elementales”. En realidad nos comportamos como perfectos incrédulos, porque pensamos que la acción divina deba ser siempre interceptada por nuestra inteligencia o deba respetar siempre un cierto “cliché” religioso. Pero la lección del evangelio no se detiene aquí. Es necesario preguntarse como es que el Señor se queda así maravillado (quizás no sin una punta de amargura) viendo que solo uno de los diez regresa a Él para agradecerle y dar gloria a Dios (Lc 17,17-18).
Este era un samaritano, un extranjero, o sea un extraño a la ortodoxia religiosa de Israel. La maravilla de Jesús no puede ciertamente entrar en el ánimo de quien no se ve reconocido en sus méritos, o también de quien se detiene a observar con pesimismo que no hay más gratitud en este mundo. Hay más bien mucho más por debajo. Aquél samaritano es el único que ha entrado al sentido más profundo de lo que ha recibido. La sanación de la lepra ha sido un don. Pero recibir un don sin reconocer al donador, o sea sin establecer con él una relación, es como un niño que recibe siempre todo de los padres, sin aprender a reconocer de dónde y a través de quién proviene todo. A la larga, quien vive así terminará por alegar siempre derechos hacia los otros, pero no vivirá en paz y no dejará en paz a nadie. Por eso Jesús dice solo a aquél samaritano que la salvación lo ha alcanzado (Lc 17,19). ¡Nos salva una relación personal y grata con Jesús, no una salud restablecida y la ofrenda que doy por esta!
Probablemente los otros nueve estaban entre aquellos que se resolvían de este modo. ¿Dios nos ha hecho esta cosa? Bien, la ley prescribe que debemos ofrecer algo en cambio al sacerdote, estamos satisfechos así. De quien vive con esta pseudo-fe, donde todo es debido y se puede intercambiar, tenemos llena la iglesia. ¡Pero en cambio de generar en una relación personal de confianza, mantiene en pie un mercado! Hay una lepra mucho más difícil del cual sanar: la religión de intereses que pide y deja favores. Quien se arena en esta “religión”, no conoce a Dios, cuando más busca usarlo. Ha olvidado o no sabe quién es Aquél que el domingo pasado ha exhortado a ser “siervos inútiles”, o sea gente que ha aprendido de Dios a vivir gratos y a no buscar ventajas de la propia fe. Si les parece, y si piensan que estas palabras mías no sean solo harina de mi costal, vayan a leer el final del relato de Naamán sanado (2Re 5,20-27). Es el triste caso de Ghecazi, hombre “creyente” al servicio de Eliseo, que quería aprovecharse de lo que el profeta había en cambio rechazado. Esa es la verdadera y más peligrosa lepra del cual sanar, con la gracia de Dios.
In effetti il comportmento del Samaritano é stato “anomalo” rispetto a quello degli altri che forse conoscevano bene le regole da seguire in questi casi : fare appunto un dono materiale al loro Signore che li aveva guariti così da sentirsi a posto con la coscienza.
Il Samaritano forse non conosceva questa regola, forse non aveva niente da dare “in cambio” o forse si sentiva talmente privo di tutto che ha compreso il grande dono ricevuto e inaspettato, magari non sentendosi nemmeno degno….e quindi, col cuore libero da tutte quelle sovrastrutture ha potuto fare spazio al dono, cioè al Signore in persona.
Anche oggi è lo stesso.
Il cuore (la vita) é pieno zeppo di ogni cosa materiale e non; non si smette mai di stiparlo con l’ illusione di avere sicurezza, stabilità…..e così più si è ricchi di queste cose, meno si fa posto al Signore e quindi in realta’si è molto poveri.
Chi si rende conto di essere o avere poco, di ogni piccola cosa si rallegra
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Semplici e bellissime considerazioni…grazie Chiara!!!!
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Ciò che rende sterile, ciò che rende povero, inaridisce il nostro cuore.
La vera lebbra è la non curanza, l’incapacità di vedere l’opera che Dio compie in noi.
La religiosità che fa i conti anche con Dio non conosce sorprese,
si ferma all’apparenza, come se
tutto gli fosse dovuto.
Grazie, è una piccola parola ma che
racchiude tanto …..
Erano stati guariti in dieci, ma solo uno ritorna a dire grazie!
Forse che dire grazie ci fa male?
La gratitudine ingentilisce l’animo,
è come un fiore che apre i suoi petali e fa sentire il suo profumo.
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Rosy cara, con poche parole hai detto più e meglio di me….GRAZIE!
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