XVII DOMENICA DEL T.O.
anno C (2025)
Ab 1,2-3;2,2-4; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
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Certo che ad ascoltare Gesù enunciare le caratteristiche del regno di Dio con le sue esigenze, ci si sente quasi sempre lontano anni luce dal poter vivere realmente quello che ci presenta. Forse anche per questo il vangelo ci ricorda che un giorno, quelli che vissero più vicini al Signore, gli chiesero accoratamente: accresci in noi la fede. Molto probabilmente sintomo di qualcosa di molto simile che essi sperimentavano nell’ascoltare Gesù. La sua risposta però è davvero sorprendente: se aveste fede quanto un granello di senape…Ancora una volta il granello di senape. Ma se Gesù risponde così, sembrerebbe quasi prendersi gioco della richiesta di chi sente di mancare di fede. Se aveste: come dire, “guardate che forse non ne avete per niente di fede” o perlomeno ne avete meno di un granello. E allora cos’è la fede? Il prosieguo delle parole del maestro è inequivocabile: la fede è qualcosa che ti fa entrare nel mondo dell’impossibile. È qualcosa che ti fa affidare pienamente a una persona che chiamiamo Dio, che ha un disegno su di noi da conoscere e calcolare sulle sue possibilità, non sulle nostre.
Di primo acchito parrebbe anche che le parole successive non abbiano niente a che fare con questa risposta di Gesù. Il Signore invita i suoi discepoli a un atteggiamento fondamentale di fronte alla sua chiamata a seguirlo. E ancora una volta lo fa in maniera sorprendente. Dalla piccola parabola sembrerebbe addirittura emergere la figura di un Dio padrone incontentabile, che pretende sempre e sorveglia sospettosamente i suoi sottoposti, senza sentirsi in dovere per il loro servizio. Ma le cose stanno davvero così? O Gesù ce la racconta dentro un orizzonte diverso? Di certo la parabola, più che voler presentare la condotta di Dio verso i suoi servitori, vuole proporre ai discepoli di ogni tempo come deve essere la loro disponibilità a servire Dio. Qui c’è il cuore del messaggio evangelico. La disponibilità del discepolo deve essere totale, senza speculazioni, senza calcoli. Il cristiano si guardi dall’entrare al servizio del Signore con lo spirito dello stipendiato. Non sarebbe diverso dall’uomo mosso dalla sua religiosità “naturale”: faccio qualcosa per Dio perché faccia altrettanto a me. Faccio da bravo ma Lui mi premi. Do ut des. È la candela che si accende a lui (o a un suo santo) prima dell’esame.
A dire il vero in chiesa ci sono tanti servitori di Dio (ma davvero lo sono?) che ti fanno “respirare” proprio una relazione di questo tipo. E non è proprio una bella aria che si respira. Come se essi avessero stipulato un contratto per le loro prestazioni di servizio e obbedienza. Purtroppo sono coloro che non rendono credibile il Signore e le meraviglie del suo vangelo. Sono come il figlio maggiore della parabola del Padre misericordioso o, meglio ancora, come gli operai della prima ora della parabola dei lavoratori nella vigna. Gesù invece desidera e ci dona di entrare in relazione filiale d’amore con Colui che ci ha donato di chiamare “Padre nostro” nella preghiera. Se vivo così la mia vita con il Signore, lo servo con spirito completamente diverso. Sarò contento e pieno di gratitudine nella mia disponibilità. E non accamperò diritti verso il Signore perché sono al suo servizio. Allora la chiamata a diventare suo discepolo diventa per sé stessa sorgente di gioia. Se vivo così la mia fede, non ho bisogno né di vantarmene né di fare confronti. Perciò si può sicuramente comprendere perché, dopo aver fatto la sua volontà, Gesù invita a dire soltanto: siamo servi inutili. Che non vuol dire che non si fa niente di utile o che ci si deve sminuire in quello che si fa, ma che abbiamo solo scoperto che essere servitori del Signore è una gioia indicibile.
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¿TE DA ALEGRÍA SERVIR AL SEÑOR?
Ciertamente, al escuchar a Jesús enunciar las características del reino de Dios con sus exigencias, uno se siente casi siempre a años luz de poder vivir realmente lo que nos presenta. Quizás también por esto el evangelio nos recuerda que un día, los que vivían más cerca del Señor, le pidieron con urgencia: aumenta nuestra fe. Muy probablemente síntoma de algo muy similar que ellos experimentaban al escuchar a Jesús. Su respuesta es realmente sorprendente: si tuvieras fe como un granito de mostaza… Una vez más el grano de mostaza. Pero si Jesús responde así, parecería casi burlarse de la petición de quien siente falta de fe. Si tuvieras: como decir, “miren que tal vez no tienen fe en absoluto” o por lo menos tienen menos de un granito. Y entonces ¿qué es la fe? La continuación de las palabras del maestro es inequívoca: la fe es algo que te hace entrar en el mundo de lo imposible. Es algo que te hace confiar plenamente en una persona a la que llamamos Dios, que tiene un designio sobre nosotros para conocer y calcular sus posibilidades, no las nuestras.
A primera vista parecería también que las palabras siguientes no tienen nada que ver con esta respuesta de Jesús. El Señor invita a sus discípulos a una actitud fundamental ante su llamada a seguirlo. Y una vez más lo hace de manera sorprendente. De la pequeña parábola parecería surgir incluso la figura de un Dios amo incontenible, que siempre reclama y vigila sospechosamente a sus súbditos, sin sentirse obligado por su servicio. ¿Pero las cosas son realmente así? ¿O Jesús nos la cuenta dentro de un horizonte diferente? Ciertamente la parábola, más que querer presentar la conducta de Dios hacia sus siervos, quiere proponer a los discípulos de todos los tiempos cómo debe ser su disponibilidad para servir a Dios. Aquí está el corazón del mensaje evangélico. La disponibilidad del discípulo debe ser total, sin especulaciones, sin cálculos. El cristiano se guarde de entrar en el servicio del Señor con el espíritu del asalariado. No sería diferente del hombre movido por su religiosidad “natural”: hago algo para que Dios me haga lo mismo. Soy bueno porque Él me premia. Do ut des. Es la vela que se enciende a él (o a uno de sus santos) antes del examen.
En realidad, en la iglesia hay muchos siervos de Dios (¿pero realmente lo son?) que te hacen “respirar” una relación de este tipo. Y no es precisamente un buen aire que se respira. Como si hubieran suscrito un contrato por sus prestaciones de servicio y obediencia. Lamentablemente son los que no hacen creíble el Señor y las maravillas de su evangelio. Son como el hijo mayor de la parábola del Padre misericordioso o, mejor aún, como los obreros de la primera hora de la parábola de los trabajadores en la viña. Jesús, en cambio, desea y nos dona entrar en relación filial de amor con Aquel que nos ha donado a llamarlo “Padre nuestro” en la oración. Si vivo así mi vida con el Señor, lo sirvo con espíritu completamente diferente. Estaré contento y lleno de gratitud en mi disponibilidad. Y no reclamaré derechos hacia el Señor porque estoy a su servicio. Entonces la llamada a ser su discípulo se convierte por sí misma en fuente de alegría. Si vivo así mi fe, no necesito presumir ni hacer comparaciones. Por lo tanto, se puede entender seguramente por qué, después de haber hecho su voluntad, Jesús invita a decir solamente: somos siervos inútiles. Eso no quiere decir que no se haga nada útil o que uno deba menospreciarse en lo que se hace, sino que hemos descubierto que ser siervos del Señor es una alegría indecible.
