IL SUCCESSO DELLA MISSIONE SOFFRE

XIV DOMENICA DEL T.O.

anno C (2022)

Is 66,10-14; Gal 6,14-18; Lc 10,1-20

 

Il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

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Domenica scorsa dicevamo che con Gesù non è possibile ricevere assicurazioni su ogni nostro bisogno o evitare a tutti i costi i rischi della vita (che poi è la stessa cosa). Ma questo non significa che siamo lasciati allo sbaraglio. Anche se il vangelo di oggi, a un primo approccio, potrebbe far venire il sospetto del contrario. Mandare i propri discepoli come agnelli in mezzo ai lupi non suona come una proposta priva di senno? Quale pastore manderebbe i suoi agnelli tra i lupi? Non è condannarli a un suicidio collettivo? Conosciamo il linguaggio paradossale delle Scritture, cerchiamo di cogliere il senso delle istruzioni del Signore. Ma ricordiamoci che prima del suo “andate” c’è il “pregate”, particolare di non poco conto. Prima di tutto, perché prima di andare per il discepolo deve diventare naturale il pregare. Se la sua missione nasce dall’alto, dall’alto riceve la forza per compierla. Inoltre, come in ogni epoca (per non piangerci troppo addosso oggi…), bisogna sempre riflettere sul fatto che la messe è abbondante ma sono pochi gli operai! (Lc 10,2) Il che non significa che Gesù si indigni perché a messa vengono sempre più in pochi (!), ma che gli operai in missione saranno sempre pochi difronte alla immensa messe umana da raggiungere con il vangelo. Dunque la preghiera sia la prima occupazione del discepolo.

Come agnelli in mezzo a lupi

Come agnelli in mezzo ai lupi (Lc 10,4a) indica l’essere inviati in modalità divina. Infatti, è proprio di Dio l’essere agnello, mai lupo: la storia di Gesù è la cifra che ha scoperto definitivamente il suo essere, non dimentichiamo che è anche uno dei suoi titoli in tutto il nuovo testamento. Dunque i discepoli non possono che essere inviati come il proprio Maestro. Ma non si pensi che sia modalità dissennata. Colui che ci manda così è anche colui che nello stesso tempo, nella versione di Matteo, ci invita ad essere semplici come le colombe e prudenti come i serpenti (Mt 10,16). Insomma, il discepolo non è uno sprovveduto, né un ingenuo. È qualcuno che, fin dove e quando può, sa guardarsi dagli uomini per non soccombere, ma mai per ricorrere alle stesse maniere dei lupi. Piuttosto che cambiare pelle, accetta i morsi dei lupi per non perdere l’identità di agnello. Chi ha orecchi per intendere, intenda. E chi invece vuol continuare a vivere da lupo rapace in veste di pecora faccia pure (cfr. Mt 7,15).

Altre indicazioni di Gesù: andare verso gli uomini in povertà e sobrietà quale segno del discepolo che si appoggia unicamente alla bontà provvidente del suo Signore. Dunque non un uomo a cui mancheranno borsa, sacca e sandali, ma un uomo che non permette al suo spirito di preoccuparsene (Lc 10,4b). Sua unica occupazione è seguire/servire Gesù, sentendo addosso l’urgenza dell’annuncio di salvezza da portare agli altri, insieme alla sua pace (Lc 10,5-6). Per questo vivrà nella fiducia di trovare, prima o poi, una casa dove la pace di Cristo sarà accolta per riposare e far riposare il suo discepolo in tutto ciò di cui ha bisogno (Lc 10,6-8). Insomma, il discepolo cercherà sempre di trovare un ordine interiore tale da non fargli mai dimenticare che suo primo compito é portare agli uomini la vita nuova regalatagli, una vita che accetta anche il rifiuto di un’intera città (vedi quanto occorso a Gesù domenica scorsa), ma che si offre agli altri nella stessa modalità in cui si è ricevuta: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (cfr. Mt 10,8). Se si crea questo ordine interiore, allora la cura degli ammalati diventa, come fu per Gesù, il primo segno della vicinanza del Regno (Lc 10,9).

Per il discepolo ci sarà sempre l’esperienza sia dell’accoglienza che del rifiuto. Le istruzioni di Gesù circa quest’ultima esperienza vanno intese bene, per non cadere in facili integralismi (Lc 10,10-12). Il gesto che il Signore ordina di fare pubblicamente in piazza non è di condanna o di altrettanto rifiuto verso la realtà cittadina che non accoglie il discepolo. Quest’ultimo sa già che l’annuncio che porta, urgente e necessario, avviene nella contraddizione, perché radicato in una Parola che può essere rifiutata in libertà. Il discepolo è un uomo della Parola, non di una propaganda. Anche qui, egli è chiamato a vivere il rifiuto degli altri come lo visse il suo Maestro. Il gesto indicato era quello dell’ebreo che, entrando nella terra promessa proveniente da una terra infedele, voleva lasciar fuori ogni impurità. L’applicazione che Gesù ne fa è per invitare il discepolo a un atto di denuncia che provoca un annuncio ulteriore estremo, non una minaccia: sappiate però che il regno di Dio è vicino (Lc 10,11). Non c’è niente in comune con chi ha rifiutato la pace, nemmeno la polvere della sua città che si attacca ai piedi: la gravità del rifiuto non va nascosta, eppure la perdizione di chi rifiuta si abbatte sul rifiutato. È il dramma di Gesù, ovvero dell’amore che non è amato. Il discepolo deve essergli simile, portando su di sé la ferita del male prodotto dal rifiuto. Diversamente, per il villaggio samaritano che lo rifiutò, avrebbe dato il via libera alla proposta di Giacomo e Giovanni. Invece li rimproverò. Quello che conta per il discepolo in missione, non è il successo a tutti i costi, ma trovarsi associato al destino del Maestro, come dice oggi Paolo nella 2a lettura: quel che conta è essere una nuova creatura e non aver altro vanto che nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo.

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EL SUCESO DE LA MISIÓN SUFRE

El domingo pasado decíamos que con Jesús no es posible recibir aseguraciones sobre cada necesidad o evitar a todas costas los riesgos de la vida (que es la misma cosa). Pero esto no significa que estamos abandonados al desliz. Aunque si el evangelio de hoy, en un primer momento, podría hacer venir la sospecha de lo contrario. ¿Enviar a los propios discípulos como corderos en medio a los lobos no suena como una propuesta priva de sentido? ¿Qué pastor mandaría a sus corderos en los lobos? ¿No es condenarlos a un suicidio colectivo? Conocemos el lenguaje paradojal de las Escrituras, intentemos coger el sentido de las instrucciones del Señor. Pero recordémonos que antes de su “vayan” está el “recen”, particular de no poca importancia. Primero que todo, porque antes de ir para el discípulo debe volverse natural el rezar. Si su misión nace de lo alto, de lo alto recibe la fuerza para cumplirla. Además, como en cada época (para no llorarse demasiado hoy encima…), es necesario reflexionar siempre sobre el hecho que la mies es abundante, ¡pero pocos los obreros! (Lc 10,2) Lo que no significa que Jesús se indigne porque a la misa vengan siempre menos (!), pero que los obreros en misión serán siempre pocos frente a la inmensa mies humana por alcanzar con el evangelio. Entonces la oración sea la primera ocupación del discípulo.

Como corderos en medio a los lobos (Lc 10,4a) indica el ser enviados en modalidad divina. De hecho, es propio de Dios el ser cordero, nunca lobo: la historia de Jesús es la cifra que ha descubierto definitivamente su ser, no olvidemos que es también uno de sus títulos en todo el nuevo testamento. Entonces los discípulos no pueden que ser enviados como el propio Maestro. Pero no se piense que sea modalidad insensata. Aquél que nos envía así es también aquél que, al mismo tiempo, en la versión de Mateo, nos invita a ser simples como palomas y prudentes como las serpientes (Mt 10,16). Es decir, el discípulo no es un desprevenido, ni un ingenuo. Es alguien que, hasta dónde y cuándo puede, sabe protegerse de los hombres para no sucumbir, pero nunca para recurrir a la misma manera de los lobos. Mas bien que cambiar piel, acepta las mordidas de los lobos para no perder la identidad de cordero. Quien tiene oídos para entender, entienda. Y quien en cambio quiere continuar a vivir como lobo rapaz en forma de cordero hágalo (cfr. Mt 7,15).

Otras indicaciones de Jesús: ir hacia los hombres en pobreza y sobriedad cual señal del discípulo que se apoya únicamente a la bondad providente de su Señor. Entonces no un hombre al cual faltaran bolsa, saco y sandalias, sino un hombre que no permite a su espíritu de preocuparse (Lc 10,4b). Su única ocupación es seguir/servir a Jesús, sintiendo encima la urgencia del anuncio de salvación que llevar a los demás, junto a su paz (Lc 10,5-6). Para esto vivirá en la confianza de encontrar, antes o después, una casa donde la paz de Cristo será acogida para descansar y hacer descansar a su discípulo en todo lo que tendrá necesidad (Lc 10,6-8). Es decir, el discípulo buscará siempre de encontrar un orden interior tal que nunca le haga olvidar que su primera tarea es llevar a los hombres la vida nueva que le ha sido regalada, una vida que acepta también el rechazo de una entera ciudad (vea lo ocurrido a Jesús el domingo pasado), pero que se ofrece a los demás del mismo modo del cual se ha recibido: gratuitamente han recibido, gratuitamente denlo (cfr. Mt 10,8). Si se crea este orden interior, entonces la cura de los enfermos se vuelve, como fue para Jesús, la primera señal de la cercanía del Reino (Lc 10,9).

Para el discípulo estará siempre la experiencia ya sea de la acogida que del rechazo. Las instrucciones de Jesús sobre esta última experiencia van entendidas bien, para no caer en fáciles integralismos (Lc 10,10-12). El gesto que el Señor ordena de hacer públicamente en la plaza no es de condena o de también rechazo hacia la realidad ciudad que no acoge al discípulo. Este último sabe ya que el anuncio que lleva, urgente y necesario, sucede en la contradicción, porque está radicado en una Palabra que puede ser rechazada en libertad. El discípulo es un hombre de la Palabra, no de una propaganda. También aquí, él está llamado a vivir el rechazo de los demás como lo vivió su Maestro. El gesto indicado era el del hebreo que, entrando en la tierra prometida proveniente de una tierra infiel, quería dejar fuera cada impureza. La aplicación que Jesús hace es para invitar al discípulo a un acto de denuncia que provoca un anuncio ulterior extremo, no una amenaza: pero sepan que el reino de Dios está cerca (Lc 10,11). No hay nada en común con quien ha rechazado la paz, ni siquiera el polvo de su ciudad que se peca a los pies: la gravedad del rechazo no va escondida, y sin embargo la perdición de quien rechaza se abate sobre el rechazado. Diversamente, para el pueblo samaritano que lo rechazó, habría dado luz verde a la propuesta de Santiago y Juan. En cambio, les llamó la atención. Lo que cuenta para el discípulo en misión, no es el suceso a todas costas, sino encontrarse asociado al destino del Maestro, como dice hoy Paolo en la 2da lectura: lo que cuenta es ser una nueva criatura y no tener otra presunción que en la Cruz del Señor nuestro Jesucristo.