SOLENNITA’ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO
anno C (2022)
2Sam 5,1-3; Col 1,12-20; Lc 23,35-43
Dopo che ebbero crocifisso Gesù, il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
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Si salvi chi può -, gridiamo, quando ci troviamo di fronte a un pericolo di morte. Ci accompagna sin dalla nascita, nel profondo, il bisogno di salvarci. Non è il semplice istinto di sopravvivenza. Come uomini avvertiamo la nostra mortalità, la finitezza della vita, ma vorremmo anche vivere sempre. Faremmo di tutto pur di salvare la nostra vita, questo è molto umano. Ma che significa salvarsi? Cosa vuol dire salvare la propria vita? Significa forse evitare la morte finché si può? Può l’uomo “saltare” la morte? Salva te stesso -, gridarono quel giorno i capi di Israele: se tu sei il Cristo di Dio – e i soldati di Roma, facendogli eco: se tu sei il Re dei Giudei (Lc 23,35-37). Il grido deridente dei rappresentanti del potere religioso e politico sembrerebbe identificare la salvezza come qualcosa di raggiungibile con la semplice capacità di liberarsi dalla morte certa di cui sono dotati i potenti. Come se dicessero: caro Gesù, se la tua identità è quella di un messia o di un re, non è possibile che tu finisca così miseramente. Un messia e un re hanno il potere di farla franca, è gente che sa sempre come cadere in piedi. Fosse anche stato reale questo potere, avrebbe allontanato per sempre l’esperienza della morte?
Quell’uomo però rimase appeso alla croce, e non cercò di salvarsi dalla morte. Pertanto, per giudei e romani, era solo un ridicolo ciarlatano. Lì sopra, essi non videro altro che l’inganno di un uomo spacciatosi per messia e re venire a galla. Ignoravano la conoscenza che proviene da quella croce, poiché nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha potuta conoscere; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della Gloria – afferma S. Paolo (cfr.1Cor 2,8). C’erano due malfattori appesi ad una croce insieme a Lui. Uno di essi si unì al ritornello del coro dei potenti, coro di insulti e di disprezzo, ma con una variante in tema: salva anche noi (Lc 23,39). Simbolo di ogni uomo che, pur nella condizione di abbeverarsi a quella misteriosa conoscenza, cioè immersi nel dolore, attaccati strenuamente alla propria vita, si chiudono nel proprio egoismo. Perché davanti al dolore e alla morte, l’uomo si chiude o si apre ad un sapere che non è di questo mondo. Dimas, l’altro malfattore, ne fu testimone oculare. Non rinunciò ad osservare quanto accadeva lì giù. Stare sulla croce non lo fece ripiegare su sé stesso. Non si capacitava di tutto quell’odio che si abbatteva su Gesù. Non se lo spiegava. Per questo osservava, e per questo cominciò a vedere a fianco a sé non un ciarlatano, ma la libertà sovrana di un re.
Dimas udì improvvisamente il grido straziante, aggressivo, dell’altro malfattore. Come poteva prendersela con Gesù? Non condivideva insieme a loro la stessa terribile sorte? Come poteva essere così stolto da insultarlo? Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? – gli urlava dall’altro lato della croce di Cristo (Lc 23,40). “Non hai ancora capito perché tu ed io siamo qui? Siamo qui per le nostre colpe, per quello che abbiamo fatto. Ma questo Gesù non è colpevole, non ha fatto nulla di male, lui non dovrebbe essere qui con noi”. Un barlume di speranza si affacciò nel suo cuore. Dimas guardò il Signore e con audace fiducia gli disse: Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. Un condannato abbandonato, senza più difese, vide una cosa che occhio mai vide e subito dopo udì una cosa che orecchio mai udì (cfr.1Cor 2,9): in verità ti dico – gli disse Gesù – oggi, sarai con me nel Paradiso (Lc 23, 43). Dimas, “il buon ladrone” che non scaricò la sua colpa né voleva evitare la morte, avvocato sulla croce in difesa di nostro Signore Gesù Cristo, fece cadere l’ultimo velo presente sul suo volto: quel Re si prese addosso la sua colpa. Quel Re lo avrebbe portato subito nel suo regno. Quel Re aveva una colpa, e ce l’ha anche oggi: quella di amarci fino a prendere su di sé le nostre colpe. La salvezza della nostra vita esiste, ma non consiste nell’evitare la morte: è lasciarsi amare da un Re in croce, colpevole di amore.
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CULPABLE DE AMOR
Se salve quien pueda -, gritamos, cuando nos encontramos frente a un peligro de muerte. Nos acompaña desde que nacemos, en lo más profundo, la necesidad de salvarnos. No es simple instinto de sobrevivencia. Como hombres percibimos nuestra mortalidad, la finitud de la vida, pero también quisiéramos vivir siempre. Haremos de todo con tal de salvar nuestra vida, esto es muy humano. ¿Pero qué significa salvarnos? ¿Qué quiere decir salvar la propia vida? ¿Significa quizás evitar la muerte hasta donde se pueda? ¿Puede el hombre “saltar” la muerte? Sálvate a ti mismo -, gritaron aquél día los jefes de Israel: si tú eres el Cristo de Dios – y los soldados de Roma haciéndole eco: si tú eres el Rey de los Judíos (Lc 23,35-37). El grito de burla de los representantes del poder religioso y político pareciera identificar la salvación como algo alcanzable con la simple capacidad de liberarse de la muerte cierta de la cual están dotados los potentes. Como si dijeran: querido Jesús, si tu identidad es aquella de un mesías o de un rey, no es posible que tu termines así miserablemente. Un mesías y un rey tienen el poder de salirse con la suya, es gente que siempre sabe cómo caer de pie. Si este poder hubiera sido real, ¿habría alejado para siempre la experiencia de la muerte?
Pero ese hombre se quedó colgado en la cruz, y no buscó salvarse de la muerte. Por lo tanto, para los judíos y romanos, era solo un ridículo charlatán. Allí encima, ellos no vieron otra cosa que el engaño de un hombre haciéndose pasar por mesías y rey saliendo a flote. Ignoraban el conocimiento que proviene de aquella cruz, porque esta sabiduría no fue conocida por ninguna de las cabezas de este mundo, pues de haberla conocido, no habrían crucificado al Señor de la Gloria – afirma S. Pablo (cfr.1Cor 2,8). Había dos malhechores colgados a una cruz junto a Él. Uno de ellos se unió a la estrofa del coro de los potentes, coro de insultos y de desprecio, pero con una variante en el tema: sálvanos también a nosotros (Lc 23,39). Símbolo de cada hombre que, aun en la condición de beber de ese misterioso conocimiento, es decir, sumergidos en el dolor, apegados incansablemente a la propia vida, se cierran en el propio egoísmo. Porque frente al dolor y a la muerte, el hombre se cierra o se abre a un saber que no es de este mundo. Dimas, el otro malhechor, fue testimonio ocular. No renunció a observar lo que sucedía allí abajo. Estar sobre la cruz no lo hizo replegarse en sí mismo. No podía creer todo ese odio que se abatía sobre Jesús. No se lo explicaba. Por esto observaba, y por esto comenzó a ver a su lado no a un charlatán, sino la libertad soberana de un rey.
Dimas oyó de improviso el grito insoportable, agresivo, del otro malhechor. ¿Cómo podía culpar a Jesús? ¿No compartía junto a ellos la misma terrible suerte? ¿Cómo podía ser así necio como para insultarlo? ¿No tienes algún temor de Dios, tú que estás condenado a la misma pena? – le gritaba del otro lado de la cruz de Cristo (Lc 23,40). “¿No has todavía entendido por qué tú y yo estamos aquí? Estamos aquí por nuestras culpas, por lo que hemos hecho. Pero este Jesús no es culpable, no ha hecho nada malo, él no debería estar aquí con nosotros”. Un destello de esperanza se asomó en su corazón. Dimas miró al Señor y con audaz confianza le dijo: Jesús, acuérdate de mi cuando entrarás en tu reino. Un condenado abandonado, sin más defensas, vio una cosa que ojo nunca vio e inmediatamente después oyó una cosa que oído nunca escuchó (cfr.1Cor 2,9): en verdad te digo – le dijo Jesús – hoy, estarás conmigo en el Paraíso (Lc 23, 43). Dimas, “el buen ladrón” que no descargó su culpa ni quería evitar la muerte, abogado sobre la cruz en defensa de nuestro Señor Jesucristo, hizo caer el último velo presente sobre su rostro: ese Rey tomó su culpa. Aquel rey lo llevaría inmediatamente en su reino. Aquel Rey tenía una culpa, y la tiene también hoy: La de amarnos hasta tomar sobre sí nuestras culpas. La salvación de nuestra vida existe, pero no consiste en evitar la muerte: es dejarse amar por un Rey en la cruz, culpable de amor.