XXVII DOMENICA DEL T.O.
anno A (2020)
Is 5,1-7; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43
Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
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Terza parabola di Gesù con la vigna ancora protagonista. Terza parabola destinata a tutti ma in primis, ancora una volta, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo. Finalmente sappiamo che cos’è la vigna in cui si è chiamati a lavorare. Siamo noi stessi, l’umanità di cui si prende cura il Signore. Il racconto porta alle estreme conseguenze il messaggio comunicato già 2 domeniche fa con la parabola dei chiamati dell’ultima ora, offrendoci una teologia della storia umana facilmente comprensibile. Il proprietario della vigna è Dio, la cui bontà ha creato, per amor nostro, un mondo bello da custodire e far fruttificare. Ma, fin dalle origini, noi coltivatori abbiamo storpiato questo mondo, il cui principio è diventato la violenza prevaricatrice che uccide il fratello per il possesso di quanto Dio ci ha dato da condividere come dono. Ammettiamolo, come coltivatori di questa creazione siamo un totale fallimento, ancora oggi!
La parabola è narrata come un crescente conflitto che si manifesta tra il lavorare di Dio e il nostro, tra la sua fedeltà e la nostra infedeltà, tra le sue premure d’amore e i nostri rifiuti, il suo disegno e i nostri disegni, la sua ostinazione e la nostra ostinazione, la sua forza e la nostra violenza. È il mistero della progressiva rivelazione del suo amore, cui corrisponde il crescendo della nostra cattiveria. Il culmine di questo dinamismo lo troviamo riassunto sulla croce di suo Figlio: lì possiamo vedere tutta la nostra cattiveria, ma anche tutta la sua smisurata bontà. È un dinamismo sempre attuale. Prendete quanto accaduto in questi giorni. Un guardacoste che si è buttato nel mare in tempesta cercando di salvare la vita di 2 ragazzi che si erano immersi imprudentemente. Lui perde la vita non riuscendo a rientrare a riva. Uno dei ragazzi, intervistato, dichiara che si è salvato da solo. Quello che è successo, invece di toccarlo e farlo riflettere, invece di farlo rispondere con gratitudine per il gesto avvenuto sotto i suoi occhi, lo fa esprimere in questo modo sconcertante.
Nella vita Dio moltiplica i suoi segnali di amore, ma la nostra risposta è spesso una deludente indifferenza, quando non un esplicito rifiuto. Qui è il mistero della durezza del nostro cuore, molto più impegnato a portare avanti dei “bracci di ferro” con gli altri e con Dio stesso, piuttosto che a scoprire quanto siamo amati e seguiti sin nei minimi particolari. Questo il senso della prima parte della parabola quando si enuncia nei dettagli la cura del proprietario insieme alla fiducia concessa agli uomini con i ripetuti inviti dei suoi servi (Mt 21,33-36). Leggendo questa fiducia mal riposta da Dio negli uomini di Israele, ci si aspetterebbe un finale in stile cinematografico americano, cioè una giustizia ripristinata con punizione severissima. Infatti, le stesse conclusioni che la domanda di Gesù tira dalla bocca dei presenti (Mt 21,40) creano questa aspettativa anche in noi. Quanto essi dicono in risposta all’uccisione del Figlio del proprietario, da un lato esprime la logica, umana reazione di fronte ai ripetuti soprusi e al delitto dei delitti: farà perire malamente quei malvagi (Mt 21,41a); dall’altro, esprime profeticamente quanto sta per avvenire nella loro storia di popolo eletto: affiderà la vigna ad altri coltivatori (Mt 21,41b). Ma le cose sono andate solo in parte così. Perché davvero il regno dei cieli è “passato di mano” a un popolo nuovo di credenti. Però Dio non si è rivelato l’“avenger” che pensavamo.
Non avete mai letto nelle Scritture: “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo; questo è stato fatto dal Signore, ed è una meraviglia ai nostri occhi? Con queste parole del Salmo 122, Gesù anticipa il suo destino e offre una lettura della stessa drammatica parabola totalmente diversa dalla nostra. Solo aprendoci all’inaudita novità della sua lettura possiamo diventare altri coltivatori che daranno frutto a suo tempo. In questi versetti è infatti concentrata l’opera di Dio: la pietra scartata su cui bisogna inciampare è Lui stesso, il Figlio che abbiamo crocifisso. Quello che è difficile da accettare/credere è che questo è stato fatto dal Signore. Che significa? Che all’interno del male che gli abbiamo fatto nella nostra libertà, c’era anche la libertà di Dio. Che Dio è più testardo di noi: il nostro infame delitto era previsto, ma anche in esso la sua azione è stata impavida. Che nella sua imperscrutabile misericordia, Dio è riuscito a tirar fuori dal nostro massimo male un incredibile bene: dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la sua grazia (Rm 5,20). Che se noi, del bene che ci fa, ne facciamo il male, Lui invece, del male che gli facciamo, ne fa un bene. Chi può capire qualcosa di questa opera? Nessuno, tranne colui che, inciampato su questa pietra (gr. scandalon), si apre alla visione della propria nudità, cioè della sua verità: allora ciò che si scarta diventa prezioso, ciò che è maledetto diventa benedetto, ciò che era orribile ai propri occhi diventa una meraviglia.
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ES UNA MARAVILLA
Tercera parábola de Jesús con la viña aún como protagonista. Tercera parábola destinada a todos, pero primero, todavía una vez más, a los jefes de los sacerdotes y a los ancianos del pueblo. Finalmente sabemos qué es la viña en la cual se es llamado a trabajar. Somos nosotros mismos, la humanidad de la cual cuida el Señor. El relato lleva a las extremas consecuencias el mensaje comunicado ya hace dos domingos con la parábola de los llamados de la última hora, ofreciéndonos una teología de la historia humana fácilmente comprensible. El propietario de la viña es Dios, la cual bondad ha creado, por amor nuestro, un mundo hermoso que cuidar y hacer fructificar. Pero, desde los orígenes, nosotros cultivadores hemos malogrado este mundo, el cual principio se ha vuelto la violencia prevaricadora que mata al hermano por el poseso de cuanto Dios nos ha dado para compartir como don. Admitámoslo, como cultivadores de esta creación somos un total fracaso, ¡todavía hoy!
La parábola es narrada como un creciente conflicto que se manifiesta entre el trabajador de Dios y el nuestro, entre su fidelidad y nuestra infidelidad, entre sus premuras de amor y nuestros rechazos, su designio y nuestros designios, su obstinación y nuestra obstinación, su fuerza y nuestra violencia. Es el misterio de la progresiva revelación de su amor, el cual corresponde al creciendo de nuestra maldad. El culmen de este dinamismo lo encontramos resumido en la cruz de su Hijo: allí podemos ver toda nuestra maldad, pero también toda su desmedida bondad. Es un dinamismo siempre actual. Vean todo lo que ha sucedido en estos días. Un guardacostas que se ha tirado al mar en plena tempestad intentando salvar la vida de dos jóvenes que se habían sumergido imprudentemente. Él pierde la vida no logrando salir a la orilla. Uno de los jóvenes, entrevistado, declara que se ha salvado solo. Lo que ha sucedido, en cambio de tocarlo y hacerle reflexionar, en cambio de hacerle responder con gratitud por el gesto realizado frente a sus ojos, lo hace expresarse en este modo de manera desconcertante.
En la vida Dios multiplica sus signos de amor, pero nuestra respuesta es muchas veces una decepcionante indiferencia, cuando no es un explícito rechazo. Aquí está el misterio de la dureza de nuestro corazón, mucho más ocupado en llevar a cabo los “brazos de fierro” con los demás y con Dios mismo, en cambio de descubrir cuánto amados somos y seguidos hasta en los mínimos particulares. Este es el sentido de la primera parte de la parábola cuando se enuncia en los detalles el cuidado del propietario junto a la confianza concedida a los hombres con las repetidas invitaciones de sus siervos (Mt 21,33-36). Leyendo esta confianza mal puesta de Dios en los hombres de Israel, nos esperaríamos un final con estilo cinematográfico americano, o sea, una justicia restablecida con castigo severísimo. De hecho, las mismas conclusiones que la pregunta de Jesús saca de la boca de los presentes (Mt 21,40) crea esta expectativa también en nosotros. Cuanto ellos dicen en respuesta a la matanza del Hijo del propietario, por un lado expresa la lógica, humana reacción delante a los repetidos abusos y al delito de los delitos: hará perecer malamente a esos malvados (Mt 21,41a); por otro lado, expresa proféticamente lo que está por suceder en su historia de pueblo elegido: confiará la viña a otros cultivadores (Mt 21,41b). Pero las cosas han ido solo en parte así. Porque de verdad el reino de los cielos es “pasado” de mano en mano a un pueblo nuevo de creyentes. Pero Dios no se ha revelado el “vengador” que pensábamos.
Nunca han leído en las Escrituras: “¿la piedra que los constructores han descartado se ha vuelto la piedra angular; esto ha sido hecho por el Señor, y es una maravilla a nuestros ojos?” Con estas palabras del Salmo 122, Jesús anticipa su destino y ofrece una lectura de la misma dramática parábola totalmente diferente de la nuestra. Solo abriéndonos a la inaudita novedad de su lectura podemos volvernos otros cultivadores que darán fruto a su tiempo. En estos versículos está de hecho concentrada la obra de Dios: la piedra descartada sobre la cual se necesita tropezar es Él mismo, el Hijo que hemos crucificado. Lo que es difícil de aceptar/creer es que esto ha sido hecho por el Señor. ¿Qué significa? Que en el interior del mal que nosotros le hemos hecho en nuestra libertad, estaba también la libertad de Dios. Que Dios es más testarudo que nosotros: nuestro infame delito estaba previsto, pero también en esta acción suya ha sido audaz. Que, en su inescrutable misericordia, Dios ha logrado sacar afuera de nuestro máximo mal un increíble bien: donde ha abundado el pecado ha sobreabundado su gracia (Rm 5,20). Que si nosotros, del bien que nos hace, hacemos el mal, Él en cambio, del mal que le hacemos, hace un bien. ¿Quién puede entender algo de esta obra? Nadie, excepto aquél que, tropezado sobre esta piedra (gr. scandalon), se abre a la visión de la propia desnudez, o sea de su verdad: entonces lo que se descarta se vuelve valioso, lo que es maldito se vuelve bendecido, lo que era horrible a los propios ojos se vuelve una maravilla.