PENTECOSTE
At 2,1-11; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27.16,12-15
“Dicono che l’amore sia cieco. Io invece credo che l’amore, quello vero, abbia una vista superiore”, afferma in uno dei suoi indimenticabili libri P.John Powell S.J., uno dei “maestri” nel mio cammino di conversione al Signore. E’ quello che si dovrebbe riconoscere rileggendo il testamento spirituale di uno dei 7 monaci martiri di Thibirine nel commento al vangelo offerto su questo blog due domeniche fa. Quando lo Spirito dell’amore ci guida, si apre davanti a noi un mondo nuovo, si vedono cose che nemmeno con i più potenti microscopi si possono vedere. E così si può arrivare a vedere in anticipo il proprio morire per il vangelo, per un popolo, per un nemico che non è più tale, ma che si vede già insieme a se stessi nel Mistero di Dio…
La Chiesa festeggia solennemente in questa domenica l’effusione dello Spirito promesso, di quello Spirito di cui il Signore parlava prima di congedarsi dai suoi discepoli. L’evento di Pentecoste che ricordiamo non è un episodio isolato individuabile nel libro degli Atti degli apostoli, né una singola stagione vissuta dalla Chiesa nascente: da quel giorno viviamo sempre nella Pentecoste! Dio continuamente effonde il suo Spirito in noi! Siamo noi, ahimè, che lo abbiamo dimenticato! C’è un racconto nella Bibbia (Gen 11,1-9) in cui ci viene presentato, per così dire, che cos’è un mondo senza Pentecoste. E’ l’episodio della torre di Babele. L’autore sacro di quel libro fa l’esperienza delle lotte tra gli uomini, delle divisioni, delle guerre, e allora si chiede il perché di tutto questo. Con il racconto della costruzione della torre ci offre una risposta universale, valida per tutte le generazioni: un mondo diviso, lacerato, confuso e in guerra è un mondo che rifiuta Dio. Senza Dio non ci capiamo più. Senza Dio, la strada dell’odio, delle discriminazioni e di ogni altra realtà che allontana gli uomini gli uni dagli altri, è largamente aperta. Quanto è vero quel racconto! Come non riconoscere la Babele presente oggi nella società umana? Ecco allora la più profonda identità della Chiesa: proseguire la stessa missione di Gesù nell’annunciare il mondo nuovo che si è inaugurato con la sua Resurrezione. E annunciarlo nella forza dello Spirito stesso del Signore che lo effonde con generosità su chi si decide per Lui, su chi gli apre la porta del proprio cuore. E’ veramente un prodigio straordinario! Quegli uomini rimasti intimiditi dalle vicende della passione e morte del Maestro rimangono a casa stupefatti e forse meditando sulle apparizioni del Risorto. Quella attesa li rende silenziosi e umili, non possono che obbedire alle ultime indicazioni di Gesù di aspettare in preghiera il dono promesso.

E la promessa si avvera. Mi piace molto l’acquarello postato che rappresenta quell’evento: nel misterioso dinamismo che entra nel circolo di quel cenacolo i soggetti hanno sì gli occhi rivolti verso il Cielo, ma è come se quella stessa forza scombinasse qualcosa in quel cerchio, come se un’improvvisa adorazione s’impossessasse dei presenti e sovvertisse quell’ordine cominciando a instaurarne uno nuovo. Quando viene lo Spirito Santo, all’inizio, c’è qualcosa che viene scombinato nelle cose degli uomini. Diceva acutamente Papa Benedetto XVI, quand’era ancora solamente il cardinal Joseph Ratzinger: “Il cristianesimo sarebbe già morto nella sua culla se gli apostoli, per obbedire all’ordine di Cristo di andare ad evangelizzare tutto il mondo, si fossero riuniti in assemblea per elaborare sofisticati piani pastorali“. E’ proprio così. “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene ne dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8) spiega Gesù in colloquio notturno a Nicodemo ancora ignaro delle cose di Dio. Il credente, per la Bibbia, non è un uomo che sa tutto e ha chiaro il tutto della sua fede. Il credente è un uomo che, avvinto dalle parole di Gesù (cfr. vangelo di oggi), si lascia guidare dal suo Spirito e gli permette di entrare nella propria vita con la sua sorprendente e creativa novità. Ecco perché nonostante i tanti secoli trascorsi e i suoi innumerevoli sbagli, la Chiesa in ogni tempo manifesta comunque una rinnovata giovinezza! E’ lo Spirito Santo che la vivifica, è il dono dello Spirito a identificare la Chiesa! Sentite ancora cosa dice Ignazio di Latakia, primate metropolita ortodosso vissuto alla fine del secolo scorso: “Senza lo Spirito Santo Dio è lontano, Cristo è una figura del passato, il Vangelo è lettera morta, la Chiesa è una semplice organizzazione umana, la sua autorità una dominazione, la sua missione solo una propaganda. Ma con e nello Spirito Santo, Cristo Risorto è presente, il Vangelo è una potenza di vita, la Chiesa è specchio della Comunione della Trinità, la sua autorità è un servizio liberatore, la sua missione è una perenne Pentecoste!“. Io, cercando quella stessa umiltà che viene da Dio, aggiungo: quando lo Spirito Santo prende le redini della nostra vita si diventa testimoni, si annuncia il Vangelo senza paura. Rimane una sola paura: quella di perdere Gesù Cristo, perché fuori di Lui non conta più niente! “Guai a me se non evangelizzassi!” giunge a dire S.Paolo (1Cor 9,16). E’ esattamente quello che vediamo nei primi atti degli apostoli dopo il giorno di Pentecoste, è esattamente quello che pensiamo quando leggiamo pagine come quella del monaco martire di Thibirine, è esattamente quello che sentiamo nel vedere ancora oggi la testimonianza di tanti fratelli e sorelle che si oppongono alla paura e alle mille false mode che cercano di risucchiarci nell’inganno del mondo.
Desidero parlarvi molto brevemente di uno di questi uomini. Oggi pomeriggio a San Salvador in Centroamerica, vigilia di Pentecoste, verrà beatificato un vescovo che ha segnato con la sua testimonianza il cammino di tanti giovani cristiani: Mons.Oscar Arnulfo Romero. E’ una gioia particolare per me, come credo per tanti altri, accogliere questo evento nella messa vespertina di Pentecoste. La sua vicenda ci parla di un uomo che ha permesso allo Spirito di scrivere una pagina stupenda della nostra storia di salvezza. Giovane seminarista a Roma, poco prima dell’ordinazione sacerdotale, scriveva nei suoi appunti: “Quest’anno farò la mia grande consegna a Dio! Dio mio, aiutami, preparami. Tu sei tutto, io sono nulla e, tuttavia, il tuo amore vuole che io sia molto. Coraggio! Con il tuo tutto e con il mio nulla faremo questo molto“. Divenuto Arcivescovo di San Salvador, pastore mite e quasi timido, ebbe la svolta decisiva nella sua vita con l’uccisione, il 12 marzo 1977, di padre Rutilio Grande, sacerdote gesuita salvadoregno, che aveva lasciato l’insegnamento universitario per farsi parroco dei “campesinos”, i contadini oppressi ed emarginati. Fu questo l’evento che toccò il cuore dell’Arcivescovo Romero che pianse il suo sacerdote come poteva fare solo una madre con il proprio figlio. Si recò subito ad Aguilares per la Messa di suffragio, passando la notte piangendo, vegliando e pregando per le tre vittime innocenti, il padre Rutilio e i due contadini che lo accompagnavano. I campesinos erano rimasti orfani del loro padre buono, e Mons. Romero ne volle prendere il posto. Mons. Romero si lasciò “scombinare” nella sua vita di vescovo dallo Spirito di Dio operante in quel fatto tragico, ma luminosissimo. Da quel giorno, il linguaggio dell’Arcivescovo diventò più esplicito nel difendere il popolo oppresso e i sacerdoti perseguitati, incurante delle minacce che quotidianamente riceveva dal regime dittatoriale allora imperante. Scriveva infatti Romero: “Ritenni un dovere collocarmi decisamente alla difesa della mia Chiesa e al fianco del mio popolo tanto oppresso e vessato“. Le sue parole, però non erano un incitamento all’odio e alla vendetta, ma un’accorata esortazione di un padre ai suoi figli divisi, che venivano invitati all’amore, al perdono e alla concordia. Egli, contemplando la bellezza della natura e lo splendore del paesaggio salvadoregno soleva dire “che il cielo deve iniziare qui sulla terra“. Guardava alla sua cara patria così tormentata con la speranza nel cuore. Sognava che un giorno sulle rovine del male avrebbe brillato la gloria di Dio e il suo amore. La sua opzione per i poveri non era ideologica ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori ai quali predicava la conversione al bene e ai quali assicurava il perdono, nonostante tutto. Era abituato a essere misericordioso. La generosità nel donare a chi chiedeva era – a detta di tanti che lo conobbero – totale, sovrabbondante. A chi domandava, dava. Qualche volta diceva che se gli avessero restituito i soldi che aveva distribuito, si sarebbe ritrovato milionario. Alla fine di febbraio del 1980 Mons. Romero viene a conoscenza delle minacce di morte contro la sua persona; riceve anche un avviso di minaccia molto serio da parte del Nunzio Apostolico in Costa Rica Mons. Lajos Kada e agli inizi di marzo viene danneggiata una cabina di trasmissione della radio YSAK, la voce panamericana, che trasmetteva le sue omelie domenicali. Nei giorni 22 e 23 marzo le religiose che gestiscono l’ospedale della Divina Provvidenza, dove viveva l’Arcivescovo, ricevono chiamate telefoniche anonime che lo minacciano di morte. Infine, il 24 dello stesso mese, Oscar Arnulfo Romero viene assassinato da un tiratore scelto mentre celebra la messa nella cappella di questo ospedale. Lascio qui, dentro le celebri parole di alcune sue omelie, la traccia profonda che ha lasciato nella Chiesa per aiutarci a seguire le orme del Signore Gesù: “La parola resta. E questa è la grande consolazione di chi predica. La mia voce scomparirà, ma la mia parola che è Cristo resterà nei cuori di quanti lo avranno voluto accogliere” (17.12.1978). “Fratelli, custodite questo tesoro. Non è la mia povera parola a seminare speranza e fede; perché io non sono altro che l’umile risuonare di Dio in questo popolo“. (2.10.1977) “Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Se spengono la mia voce, essa si riaccenderà nel popolo de El Salvador. Un vescovo morirà, ma la chiesa di Dio, che è il popolo suo, non morirà mai” (marzo 1980).
Anche Mons.Romero aveva una vista superiore.