DIO HA GIA’ PAGATO: SE NON ACCETTI LA PAGHERAI

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

anno A (2023)

Sir 27,33-28,9; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

 

Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

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Siccome domenica scorsa abbiamo udito Gesù dare regole precise per affrontare il problema della colpa di un fratello, Pietro avanza subito quella domanda che sarebbe affiorata nel cuore di chiunque tra noi, se fossimo stati al suo posto. Bisogna perdonare sempre o c’è un limite al perdono? La formulazione della domanda è già indizio che, fosse per noi, si dovrebbe porre sicuramente un limite: quante volte? Fino a sette volte? (Mt 18,21) Gesù sa dove vuol portare i suoi discepoli nella sequela. Ma, finché non inciamperanno quando lo vedranno in Croce, essi non sanno ancora chi è Colui che li sta istruendo. La parabola serve ad avvicinarli al suo mistero, perché possano un giorno capire che il Regno dei Cieli non è spiegabile dentro logiche umane, né può entrare nel cuore di chi ha deciso che tutto nella vita deve essere rigorosamente razionale. La risposta del Signore alla domanda, a una prima lettura, parrebbe contraddire quel che ho appena affermato. Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette (Mt 18,22): sembrerebbe espressione che inquadra la questione a un livello puramente matematico. Pietro offre un limite, Gesù allarga molto di più quel limite, ma sempre un limite ci sarebbe al perdono. Stanno così le cose per Dio?

Parabola del servo spietato 3

La parabola risponde al quesito. La risposta di Gesù va interpretata secondo l’esplicito richiamo della parola in Genesi, dove Lamech, discendente di Caino, si propone una vendetta spropositata rispetto al suo avo: sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette (Gen 4,24). Dunque Gesù risponde a Pietro di perdonare non sette, non settantasette, ma settanta volte sette, cioè l’opposto di una vendetta sproporzionata: quindi indica un perdono senza limiti. Eppure il problema che solleva la parabola, va più in profondità rispetto alla domanda iniziale. Se infatti meditiamo bene il racconto, attenti ad ogni singola parola, ci accorgeremo subito che, all’innegabile, immensa magnanimità del re di fronte al servitore dal debito sproporzionato, si contrappone un’ambiguità del suo atteggiamento che emerge proprio dall’espressione della sua preghiera: abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa (Mt 18,26), parole che comunque muovono a compassione il re. Cioè, davvero l’uomo può proporsi e proporre a Dio di restituire tutto per saldare il suo incommensurabile debito?

C’è un difetto profondo, religiosamente parlando, in questo proposito. La lezione del vangelo va oltre la più semplice spiegazione del perdono illimitato richiesto al discepolo. È come se la parabola volesse spiegarci anche l’origine del comportamento diametralmente opposto che il servitore cattivo ha con il suo debitore, malgrado avesse ricevuto il condono pieno del suo debito. Che cosa può far dimenticare un’esperienza simile, cioè essere stati perdonati in tutto? Oppure, cosa può impedire al cuore umano di avvertire nel profondo di essere stati perdonati senza condizioni? Una cosa è certa: il servitore chiede al suo debitore il saldo del suo debito, mentre lo afferra per il collo e si nega alla stessissima preghiera. Non solo agisce come persona che ignora l’immenso dono ricevuto, ma anche come uno che non si accorge minimamente della smisurata differenza del debito (Mt 18,28). Se ci riflettiamo bene, per chi vive pensando di farcela a restituire il proprio debito verso Dio, non può che essere così. Ora possiamo delinearne meglio il profilo.

Chi vuole restituire a Dio il proprio debito, è persona che fa una faticaccia a credere nel suo amore gratuito. Egli si rapporta a Lui non come a un padre, ma come a un estraneo a cui dover dimostrare qualcosa e con cui uscirne a pari nei conti. È un uomo che ha un problema profondo con Dio, dunque non si trova ben disposto a scoprire che non è quel che lui pensa. Dio si manifesta compassionevole con lui, ma la sua misericordia non giunge a cambiarlo dentro, proprio perché vuol mantenere con Lui un rapporto in cui non risulti sempre debitore. Si tratta di persona che vive sempre a credito con gli altri, a cui non piace sentirsi in debito. È il tipico soggetto che si muove sempre sul terreno dell’umana giustizia, che non pensa affatto di essere proprio lui mancante in essa. Quando parla, di solito si esprime ricorrendo a espressioni come: “è giusto che si faccia così, non è giusto che si faccia questo…”, incurante di conoscere la giustizia di Dio ben diversa dalla sua. Per lui Dio si muove nel parametro “giusto/non è giusto”. Per lui che giunge a farla pagare ai suoi debitori (Mt 18,30), il monito della parabola non può che essere grave: se non accetta che Dio è Colui che ha già pagato per tutti, se non accetta di vivere del suo perdono, si condanna da solo a pagarla caramente con la sua vita (Mt 18,32-35).  

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DIOS YA PAGÓ: SI NO ACEPTAS, PAGARÁS

Como el domingo pasado escuchamos a Jesús dar reglas precisas para afrontar el problema de la culpa de un hermano, Pedro hace enseguida la pregunta que habría aflorado en el corazón de cualquiera de nosotros, si hubiéramos estado en su lugar. ¿Hay que perdonar siempre o hay un límite al perdón? La formulación de la pregunta ya es indicio de que, si fuera por nosotros, se debería poner seguramente un límite: ¿cuántas veces? ¿Hasta siete veces? (Mt 18,21) Jesús sabe dónde quiere llevar a sus discípulos en el seguimiento. Pero hasta que no tropiecen cuando lo vean en la Cruz, aún no saben quién es Aquel que los está instruyendo. La parábola sirve para acercarlos a su misterio, para que un día puedan comprender que el Reino de los Cielos no se puede explicar dentro de lógicas humanas, ni puede entrar en el corazón de quien ha decidido que todo en la vida debe ser rigurosamente racional. La respuesta del Señor a la pregunta, en una primera lectura, podría contradecir lo que acabo de decir. No te digo hasta siete, sino hasta setenta veces siete (Mt 18,22): parecería una expresión que encuadra la cuestión a un nivel puramente matemático. Pedro ofrece un límite, Jesús ensancha mucho más ese límite, pero siempre hay un límite al perdón. ¿Están así las cosas para Dios?

La parábola responde a la pregunta. La respuesta de Jesús debe interpretarse según la referencia explícita de la palabra en Génesis, donde Lamech, descendiente de Caín, se propone una venganza desproporcionada respecto a su antepasado: siete veces será vengado Caín, pero Lamech setenta y siete (Gén 4,24). Por lo tanto, Jesús responde a Pedro de perdonar no siete, no setenta y siete, sino setenta veces siete, es decir, lo contrario de una venganza desproporcionada: por lo tanto, indica un perdón sin límites. Sin embargo, el problema que plantea la parábola, va más profundo que la pregunta inicial. De hecho, si meditamos bien el relato, atentos a cada palabra, nos daremos cuenta enseguida de que, ante la innegable e inmensa magnanimidad del rey ante el servidor de la deuda desproporcionada, se contrapone una ambigüedad de su actitud que emerge precisamente de la expresión de su oración: ten paciencia conmigo y te devolveré todo (Mt 18,26), palabras que de todos modos mueven a compasión al rey. Es decir, ¿Acaso el hombre puede proponerse y proponer a Dios devolver todo para saldar su inconmensurable deuda?

Hay un defecto profundo, religiosamente hablando, en este propósito. La lección del evangelio va más allá de la explicación más simple del perdón ilimitado que se pide al discípulo. Es como si la parábola quisiera explicarnos también el origen del comportamiento diametralmente opuesto que el siervo malo tiene con su deudor, a pesar de haber recibido la condonación plena de su deuda. ¿Qué puede hacer olvidar una experiencia semejante, es decir, haber sido perdonados en todo? O, ¿qué puede impedir que el corazón humano sienta profundamente que ha sido perdonado sin condiciones? Una cosa es cierta: el servidor pide a su deudor el saldo de su deuda, mientras lo agarra por el cuello y se niega a la misma oración. No solo actúa como persona que ignora el inmenso don recibido, sino también como alguien que no se da cuenta de la desmesurada diferencia de la deuda (Mt 18,28). Si lo pensamos bien, para quien vive pensando que puede pagar su deuda con Dios, solo puede ser así. Ahora podemos delinear mejor su perfil.

Quien quiere devolver a Dios su deuda, es una persona que hace un gran esfuerzo para creer en su amor gratuito. Él se relaciona a Él no como a un padre, sino como a un extraño al que hay que demostrar algo y con quien estar a mano en las cuentas. Es un hombre que tiene un problema profundo con Dios, por lo que no está dispuesto a descubrir que no es lo que él piensa. Dios se manifiesta compasivo con él, pero su misericordia no llega a cambiarlo por dentro, precisamente porque quiere mantener con él una relación en la que no resulte siempre deudor. Se trata de una persona que siempre vive a crédito con otros, a quien no le gusta sentirse en deuda. Es el sujeto típico que se mueve siempre en el terreno de la justicia humana, que no piensa en absoluto que precisamente es él quien falta en ella. Cuando habla, generalmente se expresa con expresiones como: “es justo que se haga así, no es justo que se haga esto…” Sin preocuparse por conocer la justicia de Dios muy distinta de la suya. Para él Dios se mueve en el parámetro “justo/no es justo”. Para él, que llega a hacer pagar a sus deudores (Mt 18,30), la advertencia de la parábola solo puede ser grave: si no acepta que Dios es Aquel que ya ha pagado por todos, si no acepta vivir de su perdón, se condena solo a pagarla caramente con su vida (Mt 18,32-35).